La proposta
Salicoltura in Sicilia: “Il sale marino è un prodotto agricolo, valorizziamolo”
di Dario Cataldo
La Sicilia è una terra ricca di storia, cultura e biodiversità, in cui l’attività agricola si intreccia con quella artigianale, artistica e gastronomica. Tra le coltivazioni tipiche dell’Isola, una delle più antiche e affascinanti è quella del sale marino, che si svolge nelle saline, ovvero degli specchi d’acqua poco profondi, separati dal mare da argini e suddivisi in vasche comunicanti. La salicoltura, o coltivazione del sale, consiste nel far evaporare l’acqua marina sotto l’azione del sole e del vento, fino a ottenere i cristalli di sale, che vengono poi raccolti e lavorati. Il prodotto finito è di alta qualità e viene utilizzato in diversi settori, tra cui l’industria alimentare, chimica e farmaceutica.
Il comparto
La Sicilia è la principale regione produttrice di sale marino in Italia, con circa il 30% della produzione nazionale. La provincia di Trapani ospita le maggiori saline siciliane, che si estendono per circa 10 mila ettari. La produzione si attesta oltre le 100 mila tonnellate l’anno – con proiezioni di 120 mila per il 2024. L’export è distribuito in diversi paesi, tra cui Francia, Germania, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Giappone e Cina. Un dato quest’ultimo che ha raggiunto un valore di circa 20 milioni di euro nel 2022, registrando una crescita del 10% rispetto al 2021. Il successo del prodotto è certificato dalle sue caratteristiche qualitative e nutrizionali, dovute alla presenza di oligoelementi e minerali naturali. Quello siciliano è anche un prodotto tipico certificato dalla UE, con due denominazioni di origine protetta (DOP): il Sale Marino di Trapani e il Sale Marino di Mozia.
Innanzitutto, il settore può beneficiare della crescente domanda di prodotti alimentari sostenibili e di qualità. Inoltre, può contribuire alla valorizzazione del territorio e allo sviluppo del turismo. Tra l’altro, la ricerca dell’innovazione tecnologica, per consentire di migliorare l’efficienza produttiva e la sostenibilità ambientale, la diversificazione dei prodotti, con la produzione di sali aromatizzati e altri prodotti derivati dal sale e la promozione del comparto attraverso attività turistiche e di marketing, con la creazione di percorsi di visita e degustazione, rappresentano una buona prospettiva di partenza su cui investire.
Ne è consapevole Giacomo D’alì, presidente del consiglio di amministrazione di Sosalt SpA, azienda trapanese che insieme ad aziende di settore italiane è stata protagonista a Roma della sottoscrizione di protocollo d’intesa con Confagricoltura per valorizzare la salicoltura italiana. “Abbiamo aderito fin dall’inizio all’iniziativa – commenta per Terrà D’alì -. La nostra azienda infatti, primo produttore di sale marino in Sicilia, produce circa 100 mila tonnellate di sale marino nel comprensorio Trapani-Paceco (80%), Marsala (20%) che distribuisce per oltre l’80% al segmento del sale alimentare, sia Retail (DO e GDO) che industria agroalimentare, con un fatturato di oltre 14 milioni di euro, affiancati da oltre 2 milioni di euro provenienti dal settore del “saliturismo” nelle saline Ettore e Infersa di Marsala”. Secondo D’Alì, il comparto trapanese è l’unico, in Italia, a potersi fregiare del marchio di Indicazione Geografica Protetta, con il nome di Sale Marino di Trapani-IGP.
Sale marino o salgemma?
Su un punto D’alì non ha dubbi. Il sale marino, a differenza del salgemma estratto dalle miniere è un prodotto tipicamente agricolo pur essendo a stretto rigore, un composto inorganico. Questo perché è un prodotto stagionalmente (in primavera-estate), con raccolta autunnale; è soggetto alle oscillazioni meteoclimatiche; è prodotto in terreni che rientrano tra i ‘terreni agricoli’ (catastalmente qualificati ‘saline’) con il metodo della ‘precipitazione frazionata’ e della cristallizzazione in appositi bacini ricavati dai salinai (che si definiscono ‘agricoltori del mare’ e parlano di coltivazione del sale più che di produzione); contiene una percentuale di oligoelementi (magnesio, potassio in particolare) che lo differenziano dal punto di vista organolettico dal salgemma e lo rendono ‘vocato’ all’uso agro-alimentare. Inoltre, sempre secondo D’Alì, si tratta di un prodotto dall’evaporazione dell’acqua di mare garantita dal sole e dal vento, che giunge a saturazione utilizzando pertanto unicamente energie rinnovabili (eolica e solare).
Insomma, per il presidente di Sosalt, “è un esempio paradigmatico di sviluppo sostenibile in quanto produce sviluppo del territorio (anche turistico) pur rispettando in modo totale i principi della sostenibilità ambientale nelle aree umide costiere dove le saline di mare (tutte Aree Protette in Italia) non esistono se l’ambiente non è integro”. “E viceversa – prosegue – modificano i propri connotati ambientali se non sono ‘coltivate’, attive e produttive; contribuisce in modo significativo al sostegno della ‘biodiversità’ sia floreale (garantendo la presenza di piante alofite anche rare) che soprattutto faunistica, costituendo l’habitat ideale per molte specie avicole migratorie e stanziali”.
Non solo, D’alì è anche convinto che l’inserimento della salicoltura – intesa come produzione di sale marino – nel comparto dell’agricoltura avrebbe inoltre l’enorme vantaggio di porre in risalto le differenze qualitative tra il sale di miniera – o salgemma – e il sale marino contribuendo a informare meglio i consumatori che “c’è sale e sale, come già avviene per molti prodotti agroalimentari che vogliono puntare sulla qualità, vedi ottenimento della certificazione IGP”. Un fatto è certo, le idee sono chiare per la strada da intraprendere: promozione, informazione e sensibilizzazione sul ruolo della salicoltura all’interno del panorama agricolo, ambientale e soprattutto economico siciliano.
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