Terrà

La cucina siciliana è un’opera d’arte in continua evoluzione, frutto di un incontro di culture e tradizioni millenarie

Dominazioni millenarie di popoli provenienti da tutto il mondo, eventi storici, politici e religiosi epocali, la Sicilia di oggi è frutto di tutto questo e continua a modificarsi adattandosi ai tempi moderni, senza perdere tutte quelle specificità che la rendono un luogo affascinante. Ed è nella gastronomia che questo valore storico-culturale emerge forte e identitario, mostrando tracce di diverse culture e influenze, di popoli europei e mediterranei, tramandate di generazione in generazione, visibili anche sui monumenti costruiti sull’isola. Ecco come è andata.

Fenici, Greci e Romani

Si deve ai Fenici l’utilizzo della conservazione degli alimenti mediante salatura e affumicatura, ma anche una dieta a base di cereali, orzo e farro in primis. Furono invece i Greci ad appassionarci all’olio d’oliva, ad insegnarci ad innestare le viti da vino, creando tradizioni che diedero il via alla viticoltura arcaica che ha tracce fino ai nostri giorni. I Romani furono poi gli autori di una vera e propria rivoluzione gastronomica portando in Sicilia il grano duro detto ‘vestito’ che non perdeva lo stato di maturazione. I ricchi romani iniziarono ad ingaggiare cuochi siciliani che sembra furono gli ideatori della cottura all’interno del pane, creando così gli antenati delle “mpanate”. Sempre ai romani si deve l’introduzione di frutti e spezie fatti arrivare da lontano quali semi di papavero, cannella, chiodi di garofano, zenzero e pepe.

Influenza ebraica

Negli anni della dominazione romana arrivarono in Sicilia anche le comunità ebraiche che si stabilirono sull’isola fino alla fine del XV secolo, quando furono espulse dal regno di Ferdinando e Isabella. Dal loro pane azzimo preparato nel periodo di Pasqua, discendono la scaccia e la vota-vota, ripiene di verdure. Per Capodanno invece il piatto principale sulla tavola erano le triglie allo zafferano, ancora oggi preparate nelle cucine siciliane. E ancora, aglio soffritto nell’olio d’oliva come condimento per le verdure, cottura delle frattaglie. Ebbene sì, hanno origine ebraica, pani ca meusa, quarume, frittula, stigghiole, mussu, masciddaru e carcagnola.

Cous cous

Gli arabi in Sicilia

Ecco un altro spartiacque. La dominazione araba portò il ridimensionamento, la creazione del latifondo, delle piccole e medie aziende agricole dedicate ad arance amare, limoni, mandarini, cotone, riso, gelsi, canna da zucchero, mandorle, nocciole, pistacchi e uva. Nacque la prima rete di irrigazione delle campagne, venne introdotta la distillazione del vino e delle vinaccia e si iniziò a produrre l’alcol per usarlo come disinfettante. Ai distillati vennero aggiunti zucchero, spezie e frutta e nacque il rosolio.

Sul fronte della pasticceria fu un tripudio di forme, colori e profumi e vennero prodotti i primi cannoli e le prime cassate. Sono arabe la creazione del gelato (sherbet, sorbetto), l’arte di essiccare la pasta (spesso condita con le sarde), la preparazione del cous cous, l’uso della carta macinata come ripieno in formati e timballi. E nacque la tradizione dello “street food”. Ma gli arabi lasciarono segni anche sul fronte della pesca (portando tecniche più avanzate di pesca e di conservazione del tonno) e su quello della lingua, il dialetto siciliano ne è testimonianza in molte espressioni tipiche.

La corte dell’imperatore Federico II di Svevia e dei Normanni

Pesce stocco con patate

Quando Ruggero d’Altavilla sconfisse gli arabi con il suo esercito era il 1063 e ai normanni servirono quasi 30 anni per conquistare tutta la Sicilia e imporre la propria dominazione. Arrivarono il ‘pescestocco’ (stoccafisso) e il ‘baccalaru’ (baccalà). Fu però Federico II, nel 1200, a segnare una rinascita della cucina siciliana. Venne ripresa la tradizione della carne ‘in umido’ della cucina greco-romana ma con l’utilizzo di carne fresca e di erbe aromatiche come basilico, salvia, prezzemolo, timo e menta. Una delle ricette preferite dall’imperatore era il “biancomangiare” (blanc manger), a base di latte e mandorla. Sulla tavola di Federico II arrivarono anche animali come cigni, gru e pavoni, oggi considerati invece soltanto ornamentali. Della cucina araba sopravvissero la gelatina di frutta, quello che oggi conosciamo come “salmoriglio” e la salsa “camellina”, condimenti delicati che arricchivano i banchetti. Curiosità? Del garofano si faceva largo uso nel riso e sembra proprio che in quegli anni venne inventato in Sicilia, e non in Lombardia, il Risotto alla Milanese.

Frutti di pasta Martorana

Angioini e Aragonesi

Arrivarono gli Angioini, il centro del Regno di Sicilia fu spostato da Palermo a Napoli e con la rivolta dei Vespri Siciliani, l’isola divenne indipendente. Fu il momento della cucina aristocratica, sia baronale che vescovile. Vennero infatti costruiti castelli e conventi, all’interno dei quali venivano coltivate ricette segrete che riguardavano soprattutto la pasticceria. Nacquero i “Frutti di pasta Martorana’’ grazie alla nobildonna Eloisa Martorana che affidò questo compito a delle monache greche che dalle mandorle creavano il marzapane, per creare decorazioni. L’influenza spagnola fece arrivare in Sicilia prodotti come mais e cioccolato, fagioli, peperoni e peperoncini. E dalle Americhe, giunse il pomodoro. Fino alla metà del XVII secolo fu considerato solo una pianta ornamentale, per molti addirittura velenosa, divenne poi il principe della cucina siciliana come ingrediente principale del sugo. Sicilia e Tunisia, sono i due unici luoghi al mondo in cui alla parola “salsa” si pensa solo alla salsa di pomodoro.

L’aristocrazia, Monsù e la cucina povera

I Monsù, noti chef che andarono a servizio di nobili famiglie, fecero la loro comparsa in Sicilia alla fine del XVI secolo, arrivando dalla Francia. Portarono con loro la cucina barocca e aristocratica, che si affermò tra il XVIII e il XIX secolo. Lo stile della cucina divenne dunque più raffinato e alle tradizioni siciliane si aggiunsero ricette francesi e napoletane. Sulle tavole arrivarono le quiche. Nel frattempo però si arricchiva la cucina dei contadini feudali e dei pescatori delle marine. Le varie ricette tradizionali, tramandate oralmente, iniziarono a essere raccolte e messe per iscritto, e furano le monache e i monaci erboristi a farsene gelosi custodi. Si trattava di ricette che raccontavano storie come quella del “Cascacavaddu all’argintera” che voleva che un argentiere caduto in disgrazia lo cucinasse usando oli profumati e cercando di convincere il vicinato di essere intento a cucinare costose prelibatezze. Nacque il Falsomagro, inizialmente chiamato Rollò, parola di provenienza francese. Ed erano i camerieri e i servitori a rubare le ricette agli chef, reinventando i loro piatti, come è successo per la salsa agrodolce inizialmente creata per la conservazione di pesce e carne, poi usata per melanzane e carciofi della Caponata.

Storia recente

Furono le famiglie storiche e nobiliari a determinare un ulteriore sviluppo della cucina siciliana. Tra queste spicca quella dei Florio, che fu a capo di una rinascita culturale e gastronomica siciliana, valorizzando al contempo il pesce siciliano, a partire dal tonno, lavorando e conservando gli alimenti. A loro si aggiunge la prolifica famiglia Alliata, Principi di Gangi, Gravia e Valguarnera e ancora Duchi di Salaparuta. A loro si devono la tradizione dell’uso della neve per la produzione del gelato e la conservazione dei cibi deperibili, la creazione di antiche cantine, l’avvio del veganismo crudista e della cucina vegetariana. Il duca Enrico di Salaparuta era promotore di una dieta basata solo sui frutti della terra e nel suo libro raccontava di un’alimentazione basata principalmente su alimenti come cereali, verdure e legumi da affiancare ad una bevanda considerata “pura e nobile”, quale era il vino. Nel frattempo le famiglie più povere ispiravano la loro cucina all’aristocrazia e se sui fuochi dei nobili la pasta con le sarde veniva servita con la cernia (pesce più raffinato) nelle cucine più umili l’antica ricetta non poteva permettersi nemmeno le sarde fresche, ma al massimo le poverissime acciughe salate, pasta che veniva definita non più “con le sarde”, ma con “le sarde a mare”, quindi rimaste proprio in acqua.

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