Terrà

Forni di casa, tanta fatica e l’immancabile “madia”: ecco il pane di una volta

Da qualunque parte ti giri forni, negozi e ristorazione propongono “pane tradizionale”, ma se si vuole essere onesti con se stessi e con gli altri occorre dire che in merito al pane tradizionale, quello cotto nel forno a legna e come una volta, la possibilità di trovarlo ancora anche sui Nebrodi può contare su pochi forni. E soprattutto, se esso ritrova certe sue regole di cottura per i menù della ristorazione più tipica o per le molte sagre du pani cunzatu, non si può dire che sia la stessa cosa di quello di una volta. Certo, quello che forse conta per noi consumatori è il fatto di essere comunque più buono di un pane industriale – tanto più scarso è o appare quest’ultimo tanto più si apprezza il primo – ma il pane di un tempo è quanto mai raro, e semplicemente perché richiederebbe la farina, il procedimento, i tempi e i forni di casa di allora.

Pani cunzatu (pane condito)

Le poche famiglie che oggi se lo permettono non lo fanno più per necessità come poteva ancora essere oltre cinquant’anni fa – risparmiare lavorando – ma, si può ben dire, per il lusso di avere, pur nelle differenze individuali su cui ognuna può contare, un pane dal sapore che richiama un mondo antico, il massimo del comfort food. È soprattutto l’irripetibile fragranza di un pane fresco, anzi caldo di forno, a richiamare l’infanzia nelle persone già avanti con l’età. I forni cercano di fare del loro meglio e sfornano, quando vogliono e quando riescono, un ottimo prodotto ma non hanno forse alternative. Per quel pane di una volta bisognerebbe però dire un grazie alle donne di molte generazioni. É noto a tutti che il pane costituiva per la maggior parte delle popolazioni dei Nebrodi (e non solo) l’alimento base della giornata. Come altrove, la disponibilità di una riserva di frumento sufficiente per tutto l’anno era il segno più evidente di un certo benessere della famiglia, o quanto meno del fatto che non pativa fame e miseria.

I modi della sua preparazione – per i Nebrodi come per altri luoghi della Sicilia e altre regioni – si ritrovano spesso descritti in pubblicazioni specifiche o si possono trovare in Rete, data anche la memoria recente e l’ancora più recente diffusa volontà di conservarla, oltre una certa moda di preparare il pane con lievito a pasta madre nei forni domestici di oggi. Non è il caso di appesantire queste righe con quelle che descrivono le fasi di lavorazione di un tempo, se non ricordando almeno quanto fosse faticoso e impegnativo per le donne di casa alzarsi nei giorni di panificazione al mattino presto, mettere la madia sui trespoli e cominciare un lavoro che finiva nel tardo pomeriggio, con poche soste ma per fare altro.

La madia veniva principalmente utilizzata per fare l’impasto. Ma aveva anche funzione di contenitore per il pane e altri alimenti.

Un fare specifico che andava necessariamente imparato, nel curare il lievito, misurare quantità e dosi, allenare le braccia per scavare coi pugni, impastare, riscaldare il forno fino alla giusta temperatura, pulirlo, mettere dentro i pani e tirarli fuori – e molte altre cose da fare ancora se voleva anche approfittare del forno caldo per guastedde, focacce, biscotti, eccetera – fino al primo assaggio di pane fresco, ancora tiepido, subito o la sera. Di quel sapere, dei significati dei segni sul pane, del suo lento lievitare al caldo delle lenzuola e delle coperte, e di molte altre cose ancora è stato scritto molto, scritto di recente, quando nel contrasto con la disponibilità facile e quotidiana del pane nei negozi è stata forse, con un certo rimorso, meglio compresa la fatica e insieme l’abilità delle donne di molte generazioni.

(Tratto dal libro “Cucina e gastronomia dei Nebrodi” di Pietro Ficarra)

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