Il macco di fave torna protagonista, piatto tradizionale della cucina contadina
di Luigi Parello
Il macco di fave, in dialetto siciliano “u maccu” è una deliziosa crema di fave secche e sgusciate, un piatto tradizionale della cucina contadina. E’ stato da sempre considerato il cibo simbolo delle scorpacciate popolane, dei poveri che non potevano permettersi altro. Questo piatto, meriterebbe il riconoscimento di prodotto identitario attraverso il percorso dei Borghi GeniusLoci De.Co. previa attenta analisi storica per individuarne in quale località può vantarne l’origine.
Un percorso da condividere con il territorio e per il territorio, che vuole salvaguardare e valorizzare il “locale”, rispetto al fenomeno della globalizzazione, la quale tende a omogeneizzare prodotti e sapori. Nelle arti e non solo, il “GeniusLoci” rappresenta concettualmente quello “spirito” percepibile, quasi tangibile, che rende unici certi luoghi e irripetibili certi momenti, uno spazio, un edificio o un monumento. Non solo: il Genius Loci è anche nelle immagini, nei colori, nei sapori e nei profumi dei paesaggi intorno a noi, che tanto spesso, anche all’improvviso, ci stupiscono ed emozionano. Le persone “respirano” il genius loci di un luogo, di un ambiente quando ne hanno piena coscienza. Ognuno di noi è attaccato a un luogo d’infanzia, a un ricordo, a un affetto, a un dolce, a un piatto. Ecco, l’obiettivo è recuperare l’identità di un luogo, attraverso le prelibatezze storiche, culturali, etiche del territorio.
La storia
Sembra che il macco fosse un piatto già diffuso ai tempi degli antichi Romani. Il nome “maccu” deriva infatti dal tardo latino, e vuol dire “schiacciare, ridurre in poltiglia”. Il termine si ricollega a maccus (dal greco maccuan, che vuol dire “fare il cretino”), personaggio delle farse popolari romane (Fabulae Atellanae), progenitore di Pulcinella. Questa macchietta anticipava, sotto certi punti di vista, il ruolo dei servi sciocchi del Settecento: mangiatori ingordi e sempre insoddisfatti che, contrariamente a coloro che la fame non la pativano, si rimpinzavano di alimenti considerati grossolani. Già nel 450 a.C. Aristofane, nella sua commedia Le rane, parla di una pietanza a base di fave schiacciate che Eracle mangia per trarre forza e nutrimento prima di intraprendere le sue straordinarie imprese amatorie.
La tradizione del macco, cibo contadino per eccellenza, perfetto per “riempirsi la pancia” con poco, è testimoniata anche da numerosi proverbi e modi di dire siciliani, come per esempio “cogghiri l’ogghiu supra ‘u maccu” (raccogliere l’olio sul macco), riferito alle persone tirchie, che dosano ogni cosa con troppa parsimonia. Per preparare il macco di fave occorrono le cosiddette fave cucivule, ovvero delle fave che si sciolgano facilmente in cottura. Fra queste, le più conosciute sono le “Larghe di Leonforte”, Presidio Slow Food dell’entroterra ennese.
La tradizione
Ogni anno a Ramacca, in provincia di Catania, il 19 marzo si festeggia San Giuseppe. La celebrazione è molto sentita dalla popolazione, e nelle case vengono allestiti altari con pietanze e cibi in onore del Santo. La sera del 18 marzo è tradizione visitare gli altari delle famiglie, a cui hanno diritto innanzitutto i tri pirsuni, scelte fra le famiglie meno agiate della città, che rappresentano la Santa Famiglia di Nazareth. Dopo aver assaggiato tutto, i tri pirsuni avranno in dono metà della tavola imbandita. Nel giorno 19, invece, in centro città viene allestita “la tavolata”, un enorme altare costituito dalle offerte dei cittadini, a cui partecipano nuovamente i tri pirsuni. E’ proprio in questa occasione che viene servita “a pasta co maccu”, pasta fresca servita con una crema di fave e lenticchie. A Raffadali, invece, in occasione della Festa della Madonna del Rosario, il primo fine settimana di ottobre viene organizzata la “Sagra del Macco”: Raffadali è, infatti, u paisi do maccu, dove questa pietanza ha avuto origine.
Un piatto cento varianti
Si prepara normalmente con le fave secche sgusciate, che si sciolgono grazie alla cottura prolungata. Esiste tuttavia la variante con le fave verdi, tipica del periodo di San Giuseppe, che ha naturalmente un colore più sgargiante di quello di fave secche ed ha bisogno di un minore tempo di cottura. In ogni caso, le fave vengono munnati du’ voti, cioè sbucciate due volte: prima tolte dal baccello e poi private della loro pellicina. Il macco di fave è in origine una semplice crema di fave con cipollotto, spesso aromatizzata con il finocchietto selvatico che in Sicilia cresce spontaneamente in abbondanza; ma viene spesso arricchito con qualche verdura, come ad esempio le bietole (giritieddi o lassini) e la borragine (vurrani).
In dialetto si dice che la miglior maniera di gustare il macco sia ru fili ri pasta cu maccu e ricotta frisca a tignitè (con due fili di pasta e ricotta in abbondanza). Negli ultimi anni il macco ha cambiato status e nella cucina contemporanea non rappresenta più solamente un piatto della cucina povera, quanto una cremosa base da arricchire con tocchetti di pancetta o anelli di calamari saltati in padella. In Sicilia, è normalmente servito come primo piatto, a volte arricchito da pasta fresca, come nei lolli che’ favi ragusani, mentre la nuova tendenza degli chef è presentarlo in raffinate versioni finger food.
La ricetta
● 500 g di fave secche sgusciate
● mezza cipolla
● sale
● olio extra vergine d’oliva
● finocchietto selvatico (facoltativo)
Preparazione
La sera precedente alla preparazione mettere le fave in ammollo in acqua fredda. Il mattino seguente, sciacquare le fave. Tritare finemente la cipolla. Soffriggere la cipolla in un filo d’olio, aggiungere le fave, far rosolare un paio di minuti poi coprire d’acqua a filo con le fave. Chi lo ama, può aggiungere un po’ di finocchietto selvatico. Far cuocere a fuoco lento per circa 3 ore, con il coperchio, aggiungendo acqua ogni qual volta le fave lo richiedono e mischiando di tanto in tanto. Verso la fine della cottura, aggiustare di sale. Servire in piatti da minestra accompagnando con crostini. Completare con un filo d’olio a crudo e, a piacere, un pizzico di pepe nero o peperoncino.
Luigi Parello
presso l’ Istituto Professionale Alberghiero "Gaspare Ambrosini" di Favara. Abilitato e iscritto all’albo professionale degli Insegnanti e all’associazione professionale cuochi Italiana (A.P.C.I.) Tra le altre cose, chef accreditato per eventi presso le diocesi/curie vescovili come quella di Palermo, Caltanissetta e Agrigento. È stato insignito, fra l’altro, dalla Libera università rurale dei Saper & Sapor “Custode dell’Identità Territoriale” e dall’Associazione di categoria cuochi europei cattolici, “Responsabile della Cucina Tipica”.
Luigi Parello
presso l’ Istituto Professionale Alberghiero "Gaspare Ambrosini" di Favara. Abilitato e iscritto all’albo professionale degli Insegnanti e all’associazione professionale cuochi Italiana (A.P.C.I.) Tra le altre cose, chef accreditato per eventi presso le diocesi/curie vescovili come quella di Palermo, Caltanissetta e Agrigento. È stato insignito, fra l’altro, dalla Libera università rurale dei Saper & Sapor “Custode dell’Identità Territoriale” e dall’Associazione di categoria cuochi europei cattolici, “Responsabile della Cucina Tipica”.
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