Terrà

Minestre e minestroni: “pasta cu i baddottula”, tante varianti e tanti sapori

Nella cucina quotidiana dei Nebrodi, come peraltro in quella del resto della Sicilia, non mancano minestre e minestroni, anche se non sono preparazioni che rendono l’immagine cartolina della cucina siciliana. Minestroni è termine comunemente inteso, assai meno quello di minestre, mutato a seconda dei tempi e dei luoghi e oggi ancora usato in senso ampio nelle carte di certi ristoranti che guardano al passato. Qui ne parlo nel senso restrittivo di preparazione in brodo, di erbe, legumi, ortaggi, ecc., opportuno del resto per la cucina siciliana, senza avventurarmi sui terreni semiotico e lessicale, pure interessanti, tanto meno su quello storicogastronomico del significato del termine, dato che la parola minestra indica nei dizionari una grande famiglia allargata di preparazioni con scarse e talvolta incomprensibili o supposte affinità.

Foto 1

La minestra più nota nel panorama siciliano, quella con i tenerumi, seppure non sia frequente nel nostro territorio, trova anche qui sempre maggiore accoglienza in cucina, preparata per lo più nella tipica forma quasi asciutta, con gli spaghetti spezzati e con l’aggiunta almeno di patate e pomodoro. Parlando di minestre, ognuno può andare con la mente alla difficoltà di un tempo di trovare anche solo pane variamente raffermo, destinato a preparazioni oggi scomparse dalla tavola quotidiana: seppure i pancotti non sono stati molto amati dalle parti dei Nebodi, u pani cuottu si aggiustava sempre, magari con qualche erba odorosa o selvatica, o una punta di estratto di pomodoro, una grattugiata di formaggio locale o ricotta infornata. Per molti era così già molto di più della minestra per eccellenza, quella di sole erbe, a volte l’unico pasto quotidiano, serale.

Foto 2

Rimangono ancora frequenti invece le minestre coi legumi (secchi e freschi), con le erbe, con ortaggi di stagione e/o patate. Molte quelle che vedono l’aggiunta del riso o della pasta, anche se oramai capita raramente che essa venga preparata fresca poco prima dell’uso. Va ricordato, in particolare, quella coi ceci: i tagghiarini chi ciciri sono menzionati nelle pagine di alcuni siti dei comuni nebroidei e in effetti appartengono ancora alla pratica quotidiana di tutte le vallate, seppure quasi sempre la pasta fresca venga ormai sostituita con tagliatelle secche sminuzzate. I tagghiarini chi ciciri erano peraltro, in qualche caso, minestra rituale o legata a momenti particolari: ad esempio la tradizione dei “Virginieddi” di Caronia e di altre località, legata alla festa di San Giuseppe, tradizione che voleva che il pasto cominciasse proprio con questa minestra. Non mancavano neppure minestre che si potrebbero definire “maritate”, un tempo comunque rare perché vedevano l’abbinamento di verdure o di ortaggi alla carne. Col tempo, è diventata tradizionale quella in brodo con minuscole polpettine (foto2) di capuliatu (tritato di carne foto1), insaporite in vari modi, in sostanza a pasta cu i baddottula.

A pasta cu i baddottula.

A cercare origini, questo piatto si vuole parente molto povero dello sciuscieddu alla messinese, pietanza che ha molti racconti in giro per la Sicilia, anche se in letteratura e in Rete si trova soprattutto come ricetta della città dello Stretto del periodo pasquale. A pasta cu i baddottula si prepara qui e là anche in altre zone dell’Isola e, seppure con sempre minore frequenza, sui Nebrodi viene ancora preparata in molte famiglie, dove si ritrovano ancora amanti del genere. Le varianti sono tante e più o meno sostanziali, ma i punti fermi sono le polpettine molto piccole, di buona carne bovina macinata e non troppo magra, un buon brodo, che diventa ancora più saporito ospitandole, e la pasta, di piccolissimo formato. Come detto, non è certo un piatto antico e per tutti, almeno non in questa forma: negli anni ’50 e ’60 la carne bovina poteva essere considerata da molti uno status raggiunto ed è probabile che il piatto abbia avuto allora la sua massima diffusione. Mentre oggi la paziente preparazione che richiede rende questa minestra, almeno a prima vista, un residuo del passato. Alcune abitudini familiari, ne difendono la sua persistenza; mentre la ristorazione tipica praticamente la ignora, ovviamente a suo danno.

(Tratto dal libro “Cucina e gastronomia dei Nebrodi” di Pietro Ficarra)

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