La calia, le spagnolette e il bighellonare: storie e tradizioni nebroidei
L’amplissimo ventaglio di sapori dei Nebrodi ne comprende alcuni che spesso le rubriche e i blog di cucina e gastronomia non contemplano, e tanto meno i ricettari. Talvolta non gli si trova neppure un nome, tanto che non saprei meglio chiamare con termine collettivo che non sia quello di “sfizi”, che non rende però al meglio l’idea che qui ci si può fare dell’insieme.
Se pure in qualche caso si faccia certo un po’ fatica a parlare di gastronomia, pure il panorama della cucina in queste terre non può dirsi completo senza accennare alla stuzzicheria nebroidea – il termine va bene all’ingrosso, per capirsi – che, come del resto quella siciliana in genere, ha un’importanza particolare, essendo pressoché dappertutto, l’immancabile complemento di sagre, feste religiose o anche, semplicemente, di rilassanti passeggiate serali. Si tratta di sapori tradizionali, altro comfort food nostalgico quando si ritrovano lontano da qui, ma ancora comuni a tutti coloro che vivono sui Nebrodi, dove invece si comprano facilmente sui banchi allestiti in occasione delle feste religiose e popolari o prossimi a luoghi di richiamo (giardini, lungomare, ecc.).
Nelle località turistiche lungo la costa sono spesso affiancati da dolciumi, ma mentre questi si possono gustare anche in moltissimi esercizi specializzati, gli sfizi stanno sui banchi degli ambulanti1: è su di essi che fanno sempre bella mostra mucchi di fave abbrustolite o piccanti, spagnolette, semi di zucca (a simenza), cannellina e anche altre “specialità”, cui di tanto in tanto se ne aggiunge qualcuna nuova che ha trovato il gradimento del pubblico. Per farsi una idea di cosa può stare sui banchi basta salire, a piedi negli ultimi chilometri data la gran folla, fino al Santuario della Madonna del Tindari in occasione della sua festa del 7 e 8 settembre. Il posto principale sui banchi come nelle preferenze dei moltissimi consumatori spetta tuttavia sempre alla calia, i famosi ceci tostati, che qui sopravanzano di gran lunga gli altri sfizi. A calia è tanto importante che non solo ha dato vita a vocaboli propri per chi la prepara e la vende (u caliaru), per i contenitori e per il procedimento, ma anche a parole dal significato simbolico: quando andavo al liceo a Patti non si marinava la scuola, si caliava.
Caliari non era solo l’operazione di tostatura, aveva il senso – e lo ha per una vasta area nebroidea, di andarsene a spasso passando il tempo bighellonando, e in cose da nulla, come accade a mangiar calia, sfizio da passeggio per eccellenza. Per tutti gli studenti e per le loro famiglie il significato di caliari era inequivocabile. I ceci tostati si possono oggi trovare anche su banchi di fiere e sagre in altre zone d’Italia e perfino in sacchetti sugli scaffali dei supermercati del Nord, ma la fragranza della calia che viene prodotta da queste parti è inimitabile: se si può, occorre chiedere quella ancora calda, tirata fuori dalla sabbia sul fuoco nella quale i ceci vengono messi a tostare sotto l’occhio del caliaru, che sa quando è il momento della cottura. Se vi gonfia un po’ lo stomaco, il fastidio vale la differenza, e se non è disponibile quella ancora calda e occorre accontentarsi, allora è sempre meglio contare su un prodotto di giornata, perché più passano i giorni e più la calia assorbe umidità, tanto da diventare un’altra cosa, come quella che si trova nei sacchetti fra gli scaffali. Nelle abitudini della gente dei Nebrodi la calia viene comunque richiesta spesso associata alle spagnolette – chiamate da queste parti quasi esclusivamente col nome di nocciole americane, i nuciddi mericani – oppure alla “cannellina”, variopinta aggiunta quest’ultima, che sotto il duro colorato rivestimento zuccherino (bianco, rosso o verde) nasconde un’anima profumata di cannella.
(Tratto dal libro “Cucina e gastronomia dei Nebrodi” di Pietro Ficarra)
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