La domesticazione
Ipotesi ermafrodita: l’origine della vite coltivata nell’area Tigri-Eufrate
Parafrasando la cosiddetta “ipotesi paleolitica” sulla scoperta del vino, per descrivere come si giunse alla prima domesticazione della vite da parte dell’uomo si dovrebbe parlare di “ipotesi ermafrodita”. Come è noto, i botanici suddividono la Vitis vinifera in due sottospecie: la Vitis vinifera subsp. silvestris, ossia la vite selvatica che cresce naturalmente dal Portogallo al Tagikistan, lungo i maggiori fiumi continentali dell’Europa occidentale e nell’Africa del Nord (Arnold et al 1998), e la Vitis vinifera supsp. vinifera (detta anche sativa), ossia la vite eurasiatica coltivata.
I tratti morfologici delle due sottospecie sono spesso sovrapponibili, e la stessa validità di questa distinzione botanica potrebbe essere opinabile, poiché è probabile che le differenze siano scaturite più dalla selezione umana che da un processo evolutivo naturale. La caratteristica in cui la vite selvatica differisce di più da quella coltivata è il sesso dei fiori: la silvestris è una sottospecie dioica, il che significa che tutti i fiori della stessa pianta sono o staminati (maschili) o pistillati (femminili); la vinifera, invece, è una pianta ermafrodita, vale a dire che possiede fiori sia staminati che pistillati. Tuttavia, anche una piccola percentuale della silvestris è ermafrodita, e sicuramente fu da questo “vivaio” trasse origine la domesticazione umana della vite.
Il processo di selezione della vite nel Neolitico
Per garantire un approvvigionamento sufficiente di uva ed evitare il pericolo di arrampicarsi sugli alberi, ben presto l’uomo (o la donna) del Mesolitico o Neolitico cercò di coltivare la vite selvatica, o seminandone i semi, o interrandone delle talee, proprio come la Vitis vinifera fa spontaneamente in natura (nel processo chiamato “propaggine”). Scegliendo una pianta maschile, la vite non avrebbe mai fruttificato, e quindi sarebbe stata presto abbandonata. Scegliendo una pianta femminile, questa avrebbe fruttificato solo se nelle sue vicinanze si fosse trovata una pianta maschile in grado di fecondarla per impollinazione, altrimenti anche questa pianta sarebbe rimasta sterile e inutilizzabile.
Ma scegliendo una pianta ermafrodita, la “vendemmia” era assicurata ogni anno (gli acini di solito si producono per autogamia), e proprio quelle piante furono conservate e coltivate. È per questo che, con molta probabilità, la domesticazione della vite avvenne partendo da quel 2 o 3 percento di viti selvatiche ermafrodite che di solito si osservano nelle popolazioni naturali, ed è questa la nostra “ipotesi ermafrodita” sulle origini della viticoltura. Successivamente, le viti addomesticate furono propagate per seminazione o per talea, e per vari millenni l’uomo ha continuato a selezionare attivamente quelle con gli acini e i grappoli più grandi, col contenuto zucherino più alto o con particolari aromi, dando vita a quell’enorme molteplicità morfologica che oggi osserviamo nelle circa 10.000 varietà di uva conosciute sul Pianeta.
Il “Triangolo fertile della vite” e le prime coltivazioni
La maggior parte degli ampelografi, archeologi, botanici e genetisti della vite concordano che le origini della viti-vinicoltura (che comprende sia la coltivazione della vite, sia la produzione del vino) siano da collocare in quello che si può definire “il triangolo fertile della vite”, un vasto altipiano che si estende tra la catena dei monti Tauri nella Turchia orientale, i versanti settentrionali dei monti Zagros nell’Iran occidentale, e il massiccio del Caucaso (Georgia, Armenia e Azerbaigian). Il noto botanico e genetista russo Nikolai Ivanovich Vavilov (1926) postulò che l’area di maggiore diversità morfologica corrisponde di solito al punto di origine di una coltura.
Partendo da quest’ipotesi, il suo allievo Aleksandr Michailovich Negrul (1938) giunse alla conclusione che la “terra d’origine” della viticoltura fosse o la regione transcaucasica (ossia l’area compresa fra il mar Nero e il mar Caspio, che si estende dal Caucaso Maggiore ai confini turco e iraniano, comprendendo le repubbliche della Giorgia, Armenia e Azerbaigian), oppure l’Anatolia meridionale (la parte asiatica della Turchia), poiché è in queste due regioni che si osserva la maggiore diversità naturale all’interno della specie Vitis vinifera. Uno studio recente sul DNA finalizzato a scoprire dove e quando fosse stata addomesticata per la prima volta la vite selvatica eurasiatica, fu ribattezzato scherzosamente come “Ipotesi di Noè” (McGovern 2003), sia parafrasando la più famosa “ipotesi di Eva” formulata per la specie umana, in base alla quale sarebbe possibile risalire a un’unica progenitrice tramite il DNA mitocondriale, sia in omaggio alla leggenda che attribuisce a Noè la decisione di piantare il primo vigneto sul Monte Ararat (un massiccio vulcanico nell’odierna Turchia sul quale si sarebbe arenata l’arca di Noè, ma dove non si sono mai viste viti coltivate o selvatiche).
Le prove archeologiche e genetiche
Certo è che varie analisi sulle correlazioni fra le sottospecie silvestris e vinifera su campioni prelevati in tutti i paesi eurasiatici hanno confermato l’ipotesi dell’area mediorientale come zona d’origine della domesticazione della vite (Myles et al. 2011). Inoltre, dalle indagini focalizzate sul “Triangolo fertile della vite” è emersa la stretta parentela genetica tra le viti selvatiche locali e le varietà coltivate tradizionalmente in Anatolia meridionale, Armenia, Georgia e anche nell’Anatolia meridionale, avallando l’idea che proprio le sorgenti del Tigri e dell’Eufrate nei monti Tauri siano la zona più probabile in cui collocare la prima domesticazione della vite (Vouillamoz et al. 2004).
Quest’ipotesi, del resto, si concilia bene col fatto che in questa parte dell’antica Mesopotamia prosperano tuttora popolazioni naturali di vite selvatica, e con una moltitudine di tracce rinvenute da McGovern (2003) – risalenti al Neolitico (10500-6000 anni fa) e alla prima Età del Bronzo (10.000 – 5.000 anni fa) – sulla presenza di Vitis vinifera, sia selvatica che coltivata, nei siti archeologici ubicati lungo i corsi superiori del Tigri e dell’Eufrate, alle pendici dei monti Tauri (per esempio Çayönü a Nord-Ovest di Diyarbakır, Hacinebi, Hassek Höyük, Korucutepe, Kurban Höyük, Tepecik e altri). Della stessa area fa parte la regione di Karacadağ, nella parte settentrionale della “Mezzaluna fertile”, che da recenti studi archeologici e genetici emerge come nucleo centrale della domesticazione di diverse colture agricole primarie, come il farro monococco, il pisello, il cece, la lenticchia, il farro dicocco e la segale (Salamini et al. 2002).
Giuliana Cattarossi e Giovanni Colugnati (Colugnati&Cattarossi, Partner Progetto “PER.RI.CON.E.”)
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