Terrà

Il medico o il contadino? Come nasce l’agricoltura “senza campagna”

  di Peppino Bivona *

Storicamente, nelle famiglie contadine più o meno facoltose, vigeva un criterio selettivo che impegnava il futuro dei propri figli: se erano svegli, perspicaci e intelligenti, studiavano e veniva loro assicurata la carriera di medico, avvocato, ingegnere o, se aveva la vocazione, ad alto prelato. Chi non aveva “testa” o difficoltà ad applicarsi, restava in campagna, a curare e gestire la proprietà agricola. Così nel tempo si sedimentò e consolidò nel settore agricolo, l’equazione lavoratore agricolo uguale poco cultura. E ciò, ha contribuito, non poco, a marginalizzare l’agricoltura e relegarla tra le attività neglette, la cenerentola. Ma vi è di più. Quando poi furono istituiti le scuole di agraria e l’agronomia elevata a dignità professionale, molti giovani, nel rifuggire i corsi di studi più impegnativi, non, trovarono di meglio che sfruttare i facili approdi messi a disposizione dal fertile ingegno di Arrigo Serpieri. Al ché, il vecchio, saggio contadino avrebbe commentato: “chiama l’orvu chi t’accumpagna”.

Tra ironia e leggenda, di certo la realtà è molto più complessa. E gli accenni volutamente paradossali, non hanno alcun intento nel mancare di riguardo verso tecnici e agricoltori con cui intercorrono rapporti di fattiva collaborazione e profonda stima. Tuttavia è innegabile che nella storia e nella cultura dominante, la campagna e in genere la ruralità sono stati termini quasi da esorcizzare, etichette infamanti, un vissuto da cui fuggire il più lontano possibile, nella stolta convinzione che la vita agreste equivalesse sempre e comunque a fame, miseria ed ignoranza e che dietro il “rurale” si celasse il populismo reazionario, l’infido interclassismo. Così i contadini del sud venivano identificati come “sanfedisti”, forcaioli, sordi e insensibili ai richiami risorgimentali (ricordate i fratelli Bandiera o Carlo Pisaccane?) o peggio, briganti, mentre quelli del nord passavano per “austriacanti”. Un retaggio evocato ed esaltato dal peso e dal ruolo sempre più determinante, che la realtà urbana assolveva nella vita politica, sociale e culturale.

I contadini del sud venivano identificati come “sanfedisti” mentre quelli del nord “austriacanti”

E la campagna? Da tempo la nobiltà e la borghesia hanno utilizzato le tenute agricole quali occasione d’investimento, produzione, prestigio, residenza di piacere fino a che, i conflitti di classe nelle campagne e la rivoluzione industriale, non ne modificarono radicalmente sia l’assetto sociale che produttivo. Agli inizi degli anni 70, il prof Corrado Barberis dell’Istituto di Sociologia Rurale osservava come il processo di integrazione della produzione agricola-alimentare all’interno dell’economia nella società industriale, provocava, parallelamente e costantemente, il divorzio, la scissione netta tra agricoltura e ruralità ovvero si delineava sempre più una agricoltura senza….campagna. Che cosa ne è rimasta della nostra vecchia fertile terra? Un mero supporto fisico, un semplice ancoraggio! E gli interventi colturali? Sono quasi esclusivamente condizionati dalla chimica, dalla meccanica e dalle biotecnologie e destinati sempre più a sovrapporsi e/o sostituirsi, in modo invasivo, ai naturali processi biologici!

Così  l’attività e le produzioni agricole sono sempre più influenzate, anzi condizionate, dal mercato globale che ne modella il paesaggio, segnato ormai dalla monotonia della monocultura e consegna la campagna come appendice, semplice segmento, della complessa filiera agro-industriale! Osservate, per un istante gli allevamenti zootecnici intensivi, vengono catalogati come agricoli per ovvia convenienza fiscale. Ma ci siamo chiesti che nesso mantengono con l’agricoltura? Arrivano camion carichi di mangimi e foraggi e ne escono con liquame destinato ad alimentare centrali di biogas o concimi quasi chimici (digestati e trattati) E il latte? Quasi un prodotto secondario. Eppure, alcuni interventi di politica comunitaria, in linea di principio, sull’onda di emergenze ambientali e sanitarie avevano posto la giusta attenzione ad un processo di “ruralizzazione” della nostra agricoltura onde favorire principi di qualità, rispetto dell’ambiente, difesa del paesaggio e del patrimonio agricolo eccetera. Ma come al solito, rischiano di finire nel vecchio tran –tran di aiuto alle imprese e a quelli di trasformazione agro-industriale di agricoltura convenzionale. Il sostegno alla vera “ruralità“ viene vanificata dalla imposizione di adempimenti burocratici o da pretestuosi parametri pseudo –economici che relegano i piccoli produttori in posizione di sicuro svantaggio. alla prossima puntata

*Presidente Libera Università Rurale

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