Terrà

Le mani in pasta della zia Lillina, dai “cannizzi” all’infornata

di Peppino Bivona* 

 Se “l’erba del vicino è sempre più verde” cosi il pane della zia Lillina, per noi ragazzi, era tutta un’altra musica rispetto a quello preparato dalle nostre madri. Ora vi chiederete stupiti, come sia possibile che uno stesso grano, macinato nel medesimo mulino, lievitato con l’identico lievito madre, possa dare origine a una cosi variegata espressione diversificata di gusti e di sapori? Ebbene a quei tempi, dove ancora l’igiene non era assimilata alla religione di stato e il disinfettante neanche alla sua “acquasantiera”, ogni casa esprimeva un suo odore, una percezione identificativa, distintiva, in particolare la cucina era il luogo dove la vita quotidiana era maggiormente vissuta.

Le case erano pavimentate con mattoni rosso-giallo di argilla, porosi e luccicanti solo la domenica mattina, le pareti imbiancate di calce spenta, lasciando all’azzurro dell’azuolo una variante cromatica del bagno. La preoccupazione vera e seria per ogni famiglia a quell’epoca era una e una sola: mettere dentro casa la “mancia” ovvero le provviste necessarie a superare l’inverno spesso freddo e piovoso. La derrata più importante era ovviamente il grano, conservato nei “cannizzi” e al bisogno tirato fuori per macinarlo. A molirlo andavano come di consueto solo gli uomini ai quali veniva riservata, a spese del mugnaio, una lauta e ricca pietanza con “pasta di casa”. Nondimeno il pane, in questo mondo rurale, dominava l’universo assetto relazionale socio-economico dello scambio, all’insegna della sopravvivenza, tuttavia una “fedda di pani (fetta di pane)” non si negava a nessuno.

Il pane era legato al vissuto quotidiano quasi a simbolo di tutti gli accadimenti della vita di ogni giorno: consapevolezza sociale, accensione per una rivolta, scambio e mediazione politica, ricatto per il futuro. Ma la farina, di ritorno dal mulino di “pietra”, doveva essere consumata nel giro di due tre mesi perché il germe di grano andava in avaria. Ebbene, ora come allora è il tempo che sancisce la nostra esperienza quotidiana. Il magico crescente era tramandato da generazioni in generazioni, scambiato quotidianamente con i vicini di casa che ne rinnovavano l’origine pasta conservata e aggiornata come pasta acida. ”Lu criscenti s’av’à rinnovari. ”L’anticu s’av’à miscari cu lu novu! Sulu accussì si fa lu pani” scrive in un racconto contenuto in ”Rosolio alla cannella” Licia Cardillo.

Il crescente come metafora del passato, del trascorso ovvero la memoria….la farina da impastare invece il presente, l’attuale. Dalla loro mescolanza nasce il pane ma anche il senso della nostra vita. Cosa avviene intanto in questo microcosmo silenzioso e umile? Non vogliamo svelarvelo senza che la nuda realtà palesi il disincanto delle passioni “dolci”. Donne sbracciate, dai polsi liberi e possenti, irruenti, affondavano a pugni chiusi, quasi con rabbia, quella pasta prima  informe, poi resa via via più plastica dai movimenti ritmati, volevano plasmare qualcosa che somigliasse alla loro identità, lasciare il segno della loro presenza, dell’alterità femminile, spesso disconosciuta e talvolta offesa e umiliata.

Le mani si slegavano dai polsi, divenivano “snodabili”, insufflavano nella pasta quanto più aria ricca di ossigeno c’era bisogno per moltiplicare i lieviti. La pasta nello “scannaturi” veniva rigirata innumerevoli volte finché sotto le abili mani  delle nostre nonne non se ne percepivano la sofficità, la leggerezza, il tutto esaltato dal buon odore del “malto”:  è così prendeva avvio la nuova vita. Le forme impastate con maestria, rotonde o allungate, venivano avviate alla lenta e complessa lievitazione. Un sonno profondo, dominato dall’inconscio, dalla irrazionalità, dalla imperscrutabilità degli eventi. Intanto, il forno che “camiava” da circa un’ora era quasi pronto, la “ramaglia” si era tutta consumata,  il “cielo” del forno era divenuto di un bianco candido.

La scopa di palma nana ripuliva il fondo del forno, con un po’ d’acqua la nonna ne saggiava il giusto calore, tutto era pronto per “l’infornata” da chiudere con l’immancabile “balata”. Aspettavamo taciturni che il calore del forno compisse il suo dovere: regalarci il pane. Queste erano ore di affannosa attesa: chissà cosa ci riserverà la “fornata”? Chi voleva aprire, subito si scontrava coi tanti che giudicavano necessario il tempo giusto per cuocerlo. Ma poi esce il primo pane, anticipato da un profumo indescrivibile che inonda tutta la presenza attesa. Il pane tratto dal forno inebria i cuori, sollecita indescrivibili emozioni: chi decide di “cunzarlu” con olio e origano, chi lo impreziosisce con acciughe salate, chi ancora con olive nere o verdi. Buona parte del profumo è addebitabile all’immancabile sesamo, “la giuggiulena”, una strana pianta approdata per caso nelle nostre zone.

Questo era un rituale, un evento settimanale: il pane era sempre uguale ma nello stesso tempo diverso, la conservazione nella diversità, quello stesso paradigma che sanciva l’amore coniugale! Ora non più. Altri grani ci danno diversamente farine, bianche di un candore mortifero, smagrite, indebolite, incapaci di nutrire i lieviti di assecondarli nel loro lavoro di demolizione dell’amido, hanno bisogno di aiuto. Abbiamo, inventato “l’ettaro lanciato” senza risparmiare concimi, diserbanti, insetticidi e tutto quanto fosse necessario per raggiungere i 100 q.li per ettaro. Farine buone solo per alimentare i porci. Cosi non vi meravigliate se nel retrobottega di un moderno panificio scorgerete scatoloni di malto, di integratori, di attivatori chiamati a completare per quanto sia possibile una breve lenta, sofferta, faticosa lievitazione.

*Presidente della Libera Università Rurale dei Saperi&dei Sapori Onlus
lurss.onlus@gmail.com

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