I “tagghiarini chi ciciri”, una minestra rituale a pranzo o cena
I tagghiarini chi ciciri sono ancora un esempio del consumo di pasta fresca in Sicilia e nei Nebrodi, in particolare. Pasta preparata fresca al momento con la farina di semola in forma di maltagliati o, appunto, di tagghiarini. Tuttavia, la pasta fresca è oggi quasi scomparsa dall’orizzonte di chi cucina, anche se le rimane in ogni caso il posto d’onore nella gastronomia nebroidea per merito del più tradizionale e caratteristico dei primi piatti: i maccarruni al sugo di maiale. I tagghiarini chi ciciri era minestra frequente, talvolta rituale e simbolica, e in diversi casi legata a ricorrenze e a momenti particolari, in cui non poteva mancare: la richiedeva e la richiede ancora ad esempio la tradizione dei “Virginieddi” di Caronia e di altre località, in occasione della festa di San Giuseppe, celebrata quasi ovunque con i suoi particolare rituali. Pranzo e cena che sia, in questi casi si vuole la presenza di alimenti e preparazioni particolari, tra i quali proprio questa minestra con questi legumi (talvolta sostituiti in Sicilia, nelle stesse o in simili circostanze, da fave e fagioli).
San Giuseppe è una festa e ricorrenza di particolare significato sulla quale antropologi dell’alimentazione e studiosi delle tradizioni popolari hanno scritto moltissimo, soprattutto della cena o del pranzo che l’accompagna e sui loro significati. I tratti comuni più evidenti alle varie versioni di questa cena si leggono per lo più nella loro motivazione e organizzazione, come segno di voto per grazia ricevuta, che tuttavia sfumano da un luogo all’altro. La cena dei Virginieddi di Caronia e altre simili che sono ancora in uso sui Nebrodi si accompagnano spesso a quelle che in Sicilia sono le molte tavole di San Giuseppe e feste del pane. La scelta dei poveri per recitare la parte della Sacra Famiglia e quella di altre figure “marginali” nella società, da invitare alla tavola, aveva sfumature di significato diverse.
Allora la differenza tra ricchi e poveri era così stridente che alcuni tra i primi organizzavano di questi momenti per farsi perdonare la loro ricchezza. Le radici di senso si perdono invece nei miti e nelle usanze di qualche millennio fa. L’abbondanza della tavola e dei cibi che la compongono, siano essi offerti come servizio in sequenza o in forma di banchetto o esposti in mostra su altari, risponde ancora a una sorta di ringraziamento o di riparazione di chi li organizza. Le tavole ricoperte di cibo servivano però ovviamente anche a stupire i compaesani per ricchezza e quantità quando dalla dimensione privata, presso la casa di chi le ospitava, potevano assumere dimensione pubblica, con la tavola allestita spesso nei vicoli.
Gli alimenti più frequenti delle cene di San Giuseppe sono ancora oggi legumi e pasta fatta in casa, insieme ad alcuni alimenti della primavera incipiente e a qualche simbolo di magro. Diverse portate utilizzavano e utilizzano la ricotta nuovamente abbondante ma soprattutto si osserva la presenza del baccalà, a mostrare il rispetto della regola quaresimale (ma anche una certa disponibilità economica). Abbondano inoltre le fritture di erbe o cardi selvatici. Il coronamento della cena, e della festa, rimaneva comunque la disponibilità dei dolci che spezzava e spezza ancora la Quaresima per coloro che seguono le regole canoniche: dolci di San Giuseppe ovviamente, leciti in Quaresima solo per l’occasione, ogni paese coi suoi.
(Tratto dal libro “Cucina e gastronomia dei Nebrodi” di Pietro Ficarra)
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