Terrà

I mille volti del “pesce stocco”, quando un piatto identifica il territorio

La tradizione culinaria a base di pesce, che permane viva in gran parte del territorio siciliano, vuole che fra i piatti tipici e più conosciuti ce ne siano alcuni che utilizzano un pesce pescato in mari lontani, il merluzzo. Pesce che ha trovato, soprattutto nel territorio dei Nebrodi, uno di quegli italici luoghi d’elezione che contribuiscono alla sua notorietà gastronomica. Si utilizza soprattutto il “pesce stocco” o stoccafisso (dal norvegese stokkfisk, “pesce a bastone”, o dall’inglese stockfish), merluzzo norvegese essiccato e, per diversi giorni prima del consumo, debitamente ammollato in acqua. Il pesce stocco a ghiotta, nella più “corretta” versione messinese, dove non possono mancare – ognuno poi mette e toglie secondo il proprio gusto e la dispensa, e più avanti, parlando di cucina, non mancherà anche la mia versione preferita – almeno le olive, verdi e/o nere al forno, i capperi, la cipolla, le patate e il pomodoro, anche in salsa.

L’utilizzo dello stoccafisso nel territorio non si ferma comunque a questa preparazione. Intanto non manca chi dell’a ghiotta ne fa una versione bianca, senza il rosso del pomodoro, e chi, abbastanza frequentemente, usa il pesce per preparare tradizionali insalate, condite semplicemente con olio, sale e limone, oppure con l’aggiunta di qualche erba aromatica, come ad esempio il prezzemolo. Comune è anche l’uso di baccalà, versione salata dello stesso pesce, alimento tradizionale anch’esso, anzi decisamente più legato dello stoccafisso a tradizioni e ricorrenze religiose, anche se questo aspetto tende ovviamente oggi a dissolversi. Rimane nelle famiglie soprattutto l’abitudine a consumarlo fritto, accompagnato da erbe e verdure. Non è l’occasione per approfondire, ma certamente il baccalà ha rappresentato per lungo tempo, in epoche in cui la tavola era scandita e fortemente condizionata dalle regole religiose, il più saporito piatto possibile dei giorni di magro.

Del resto il gusto trovava anche in quelle occasioni delle scappatoie, ed è noto il fatto che, spesso, gli alimenti permessi venivano consumati nei modi che meglio potevano rendere un sapore apprezzabile. Regola sì, ma con meno rinunce possibili. Le vigilie dei giorni di festa legati alle solennità religiose erano di magro e la regola andava rispettata, così voleva la tradizione e così posso ricordare si faceva la vigilia di Natale in cui da bambino mangiavo regolarmente il rituale baccalà: come in altri paesi vicini, proprio in quella vigilia si consumava questo pesce, in bianco i grandi, io fritto per accontentarmi, accompagnato col sedano, lessato e condito con olio, sale e limone. Che quella fosse l’usanza dei Nebrodi orientali di quel giorno di attesa lo compresi appieno molto tempo dopo, con gli amici dei paesi vicini. Del resto anche a occidente non mancavano simili usanze, tant’è che nella tradizione dei Virginieddi a Caronia il pranzo per i bambini bisognosi in vista della festa di San Giuseppe comprende necessariamente il baccalà fritto. È inutile dire che in famiglia il baccalà si consuma anche a ghiotta o in insalate – queste ultime di solito più gradite di quelle preparate con lo stocco -mentre la ristorazione ci sperimenta sopra, con preferenza per il fritto, tanto che oggi questo alimento è entrato anche nei cartocci da street food anche da queste parti.

(Tratto dal libro “Cucina e gastronomia dei Nebrodi” di Pietro Ficarra)

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