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In Sicilia, rinasce la canna da zucchero. “L’oro bianco” tra storia, tradizione e innovazione
di Dario Cataldo
La canna da zucchero in Sicilia merita di essere riscoperta e valorizzata, non solo per il suo valore storico e culturale, ma anche per le sue potenzialità economiche e ambientali. E la produzione del primo rum made in Sicily, interamente prodotto in terra siciliana, è un segno di come sia possibile essere protagonisti nel mercato dei distillati, offrendo un prodotto di qualità e di origine controllata. Ma andiamo con ordine. La Sicilia è una terra di antiche e nobili tradizioni agricole, che ha saputo conservare e valorizzare i suoi prodotti tipici e le sue eccellenze enogastronomiche. Tra le colture che hanno segnato la storia e la cultura dell’Isola, una delle più affascinanti e dimenticate è quella della canna da zucchero, una pianta tropicale che ha trovato in Sicilia un clima ideale per la sua crescita e trasformazione.
E a proposito di trasformazione, oltre all'”oro bianco” (come veniva definito lo zucchero), risale al 1600, ed esattamente ad Avola (Siracusa) la prima produzione di rum ottenuto dalla fermentazione e distillazione del succo o della melassa di canna da zucchero. La tradizione del rum ad Avola si perse nel tempo, tuttavias, fino a quando, nel 2020, un imprenditore locale, Corrado Bellia, decise di riprendere la coltivazione della canna da zucchero e di realizzare il primo rum 100% siciliano, con il marchio “Avola Rum”. A questo, nei giorni scorsi è stato affiancato anche il primo Rum interamente distillato in Sicilia, a Modica, grazie al sapiente lavoro della distilleria Alma, che lavora al progetto dal 2021. Il rum è prodotto con il metodo “agricolo”, che utilizza solo il succo fresco di canna da zucchero coltivata in Sicilia, senza aggiunta di altri ingredienti. Il succo viene fermentato con lieviti selezionati e distillato in alambicchi discontinui a vapore. Il rum viene poi lasciato maturare in botti di rovere per almeno 12 mesi.
La storia delle origini del rum ha ancora dei lati da far emergere. Di certo, la canna da zucchero in Sicilia fa riecheggiare i segni di un fiorente passato, ancora poco visibile ma tangibile. Un’impronta storica è data dall’inserimento iconografico di quattro culmi di canna da zucchero nel Gonfalone di Acquedolci, un piccolo centro in provincia di Messina, autonomo dal 1969 e che negli anni ’80 ha inserito come simbolo identitario la pianta della canna da zucchero, a memoria della coltivazione e trasformazione in zucchero. Proprio ad Acquedolci esisteva uno dei maggiori Trappeti dell’isola secondo solo a quello di Avola. La testimonianza storica della canna da zucchero in Sicilia è concreta anche a Trappeto, un comune del Palermitano il cui nome già rimanda a questa florida tradizione, avvalorata dal prof. Orazio De Guilmi, uno dei più autorevoli conoscitori della materia nonché tra i più stretti collaboratori del noto sociologo Danilo Dolci.
“In un tempo in cui il mondo attuale sembra impazzito con comportamenti che vanno in direzione opposta alla salvaguardia e valorizzazione della natura – commenta De Guilmi – per non parlare dei focolai di guerra, che si muovono verso la catastrofe finale, recuperare memoria e promuovere cultura e progettualità positiva, potrebbe apparire un non senso. Ed invece sta proprio nella necessità di guardare il futuro che occorre partire dalle radici per rendere più vivibile la vita. In questo contesto si inserisce il progetto che vede impegnate Istituzioni pubbliche, storici, aziende illuminate e uomini di cultura, accomunati da passione e amore per la terra di Sicilia”.
“Per restare nel tema illustrerò, brevemente, le origini storiche di Trappeto che hanno un nesso forte con tali problematiche – prosegue De Guilmi -. È ampiamente noto e dimostrato che la canna da zucchero, cannamele, è stata introdotta in Sicilia da parte degli arabi sin dall’ottavo secolo. Ma è con Federico II di Aragona che avviene una vera e propria evoluzione di questa coltura e trasformazione a fini alimentari nel 1307, allorché istituisce le Terre Balestrate, nel territorio prospiciente il mare, ad un tiro di balestra dalla Selva partenia (Partinico in provincia di Palermo). Sarà re Alfonso di Aragona (il Magnanimo) che concederà al suo camerlengo Nicolao de Leonfante le terre Balestrate, con facoltà di coltivare, costruire case e trappeta cum torre. Alla morte di costui le Balestrate vengono ereditate dalla figlia Elisabetta, andata in sposa a Francesco Bologna. Nel 1480 il Bologna incentiva la coltura della cannamela e potenzia il Trappetum cannamelarum, con annessa chiesetta”.
“C’è da dire – dice ancora De Guilmi – che la lavorazione della cannamele, per la cottura della melassa, ha previsto il consumo di enorme quantità di legname, ricavato dal bosco di Partinico, che negli anni è stato spogliato completamente. Sorgono nello stesso periodo molti altri trappeti da cannamela nella Sicilia occidentale ed in quella orientale, ma quello di maggior rilievo nel settore occidentale è quello che in provincia di Palermo ha dato il nome al proprio comune: Trappeto. Va considerato infatti che il trappeto della cannamele era collocato in una posizione particolarmente strategica: in prossimità del mare per consentire la commercializzazione del prodotto e la presenza di molti boschi, da cui trarre legna da ardere per la lavorazione (Partinico e Monreale). Due fattori fondamentali contribuiscono alla fine della coltivazione e lavorazione della cannamele: da un lato la scoperta dell’America, dove la coltivazione intensiva della canna da zucchero ed il basso costo della la rendevano poco remunerativa in Sicilia. In seguito, con l’estinzione della linea ereditaria di Bologna, per cui le terre caddero in abbandono”.
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