
L'intervista all'enologo
La “enologia del lasciare”: il metodo Paternò tra cemento, vento e memoria
di Alberto Giacomo Manzo*
Nelle terre di Noto, dove il vento del Mediterraneo accarezza i vigneti e il sole disegna ombre lunghe sui filari, abbiamo incontrato Angelo Paternò. Un uomo che ha fatto del vino la sua missione di vita, trasformando 60 ettari di territorio siciliano in un laboratorio di eccellenza enologica. La sua storia inizia lontano da qui, tra le nebbie dell’Emilia, per poi tornare alle radici siciliane con un bagaglio di esperienza internazionale che ha rivoluzionato il suo approccio al vino.
Diplomato perito agrario nel 1978 all’Istituto Filippo Eredia di Catania, enologo dal 1991, Paternò ha costruito la sua carriera attraverso tappe fondamentali che lo hanno portato dalle Cantine Riunite di Reggio Emilia alla direzione tecnica delle più importanti realtà vinicole siciliane. Oggi, nella sua Cantina Marilina, applica quella che lui stesso definisce “enologia del lasciare”, una filosofia produttiva che va controcorrente rispetto ai protocolli convenzionali.
L’incontro con questo enologo-imprenditore rivela immediatamente la passione di chi ha fatto della qualità e del rispetto territoriale i cardini della propria professione. Le sue parole, misurate e precise come i suoi vini, raccontano un percorso unico nel panorama enologico siciliano.

(da sx, l’enologo Angelo Paternò, la figlia export manager Marilina Paternò, l’enologo Alberto Giacomo Manzo)
Come è iniziata la sua avventura nel mondo del vino?
“La mia storia professionale ha radici precise: il diploma di Perito Agrario Specializzato per la Viticoltura e l’Enologia conseguito nel 1978 all’Istituto Filippo Eredia di Catania. Nel 1991 ho ottenuto il titolo di Enologo secondo la legge 129. Il primo impatto con il mondo del lavoro è stato al Nord, alle Cantine Riunite di Reggio Emilia. Un’esperienza formativa che mi ha insegnato i meccanismi della grande produzione”.
Dopo il Nord, il ritorno al Sud…
“Esatto. Dopo una parentesi a Brindisi presso il C.I.S., nel 1989 sono approdato alle Cantine Settesoli di Menfi come dirigente responsabile del settore tecnico. Ed è qui che la mia visione del vino ha subito una trasformazione radicale”.
Settesoli è stata una tappa cruciale della sua carriera…
“Assolutamente sì. Durante quegli anni ho avuto l’opportunità straordinaria di collaborare con l’Università di Bordeaux, lavorando fianco a fianco con Christophe Ollivier e Denis Doubordieu. Ma il vero artefice di questa collaborazione è stato Diego Planeta, l’ex presidente di Settesoli scomparso cinque anni fa. Il suo contributo è stato preciso e determinante”.
Come ha influenzato il suo approccio professionale questa esperienza?
“In modo decisivo. La fase di ricerca e sviluppo di quegli anni ha rafforzato il mio percorso professionale e ha inciso profondamente sulla mia idea di vino. Quella collaborazione aveva l’obiettivo di verificare le nostre produzioni e programmare lo sviluppo tecnico futuro dei vini Settesoli. Quegli anni hanno trasformato la cantina in un centro nevralgico di ricerca e sviluppo per tutto il vino siciliano”.
Dopo Settesoli, lei ha diretto anche la Duca di Salaparuta…
“Dal ’98 al 2001 ho guidato il settore tecnico della Vini Corvo – Duca di Salaparuta a Casteldaccia. È stata l’ultima tappa da dipendente. I tempi erano maturi per un progetto personale che potesse dare spazio alla mia creatività. Nel 2001 è nato il progetto Cantina Marilina”.
Perché proprio Noto?
“Dopo aver valutato diverse zone della Sicilia Occidentale, mi sono concentrato sul sud-est dell’isola. Noto mi ha conquistato per caratteristiche pedoclimatiche uniche: terreni bianchi calcarei, la particolarità di essere la seconda zona più ventosa d’Italia, la persistente insolazione – siamo più a sud di Tunisi – e soprattutto la vicinanza ai due mari, Ionio e Mediterraneo, che creano escursioni termiche fortissime tra giorno e notte. Ho acquistato 60 ettari e ho coinvolto tutta la famiglia”.
Quali sono stati i vitigni scelti per questo progetto?
“Il nero d’avola era inevitabile: storicamente nasce in queste zone. Ma negli anni mi sono concentrato sullo sviluppo enologico di grecanico e moscato di Noto. Recentemente abbiamo introdotto il Catarratto mantellato, tipico della provincia di Siracusa. Su Catarratto mantellato e moscato di Noto ho fatto un importante lavoro di recupero della biodiversità, prelevando materiale genetico da vigneti esistenti in azienda”.
Il recupero varietale è una priorità?
“Assolutamente. La prossima varietà che vogliamo salvare dall’oblio è il moscato rosa, quasi del tutto scomparso. È la nostra filosofia: difendere i vitigni esistenti in azienda significa preservare la storia enologica del territorio”.
Le sue scelte tecniche vanno controcorrente…
“Sin dalla costruzione della cantina ho optato per contenitori in cemento di diversa capienza per un totale di 5000 ettolitri, più il reparto legno con 1000 ettolitri tra botti e barrique. Ho deliberatamente escluso l’acciaio perché lo ritengo troppo industriale, adatto solo a cantine di grandi dimensioni”.
Un approccio sostenibile fin dall’inizio…
“Dal 2001 i vigneti sono in regime biologico, così come la gestione della cantina. Abbiamo ottenuto la certificazione Viva sulla sostenibilità nei quattro indicatori: aria, acqua, vigneto e territorio. È una scelta di sensibilità verso la cura e la difesa del territorio”.
La sua filosofia enologica ha un nome preciso…
“Io la chiamo ‘enologia del lasciare’, totalmente diversa dall’enologia del togliere dei protocolli attuali. L’elemento determinante è l’equilibrio: struttura, alcol e acidità devono creare una sinfonia. Dal 2004, primo anno di vinificazione, le uve rosse macerano per periodi molto lunghi e tutte le uve bianche hanno macerazione prolungata”.
Tecniche che sfidano le convenzioni…
“Non uso lieviti selezionati, non refrigero, non chiarfico. Per le Riserve non filtro completamente: imbottiglio direttamente dalle barrique. Gestisco il tempo e dono tempo ai vini affinché raggiungano le caratteristiche proprie di ogni vitigno e l’equilibrio desiderato”.
Molti etichettano i suoi vini come “naturali”…
“Niente di più sbagliato! Le mie scelte non sono frutto di mode ma applicazione rigorosa della scienza enologica per una cantina medio-piccola che distribuisce nel canale Horeca. L’obiettivo è differenziarsi per trovare spazi liberi di mercato”.
Ha introdotto anche tipologie innovative…
“Dall’analisi del mercato ho sviluppato tecniche che mi hanno permesso di portare due nuove tipologie: vini con metodo ancestrale in versione bianco e rosato, e Orange Wine da moscato di Noto. Erano inesistenti qualche tempo fa, oggi rappresentano il futuro”.
Il mercato come ha risposto?
“Positivamente. Queste scelte enologiche, diverse dai protocolli convenzionali, non sono empiriche ma frutto di studio. Rappresentano l’applicazione della scienza enologica a una realtà produttiva specifica”.
Quale eredità sta lasciando al settore?
“Credo di aver contribuito a costruire un nuovo modo di intendere il vino siciliano come espressione nobile di un’identità territoriale. Il mio approccio non è solo tecnico ma anche culturale. L’enologia del lasciare è rispetto ed espressione dei vitigni, quindi della territorialità”.
Un messaggio per le nuove generazioni di enologi?
“Studiate, sperimentate, ma non dimenticate mai che il vino nasce dalla terra. La tecnologia è uno strumento, non il fine. Il nostro compito è far emergere l’anima del territorio attraverso ogni bottiglia”.
*Enologo
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