Terrà

Agnello pasquale, dalla simbologia cristiana alla tradizione culinaria

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di Luigi Parello

Non c’è tavola in Sicilia in cui per Pasqua non sia presente l’agnello, cotto al forno, in tegame, alla brace, “abbuttunatu”, “aggrassatu” e tanti altri modi ancora. Ma perché proprio il giorno di Pasqua? La risposta è legata ad antiche tradizioni religiose. Per le culture del Mediterraneo l’agnello era simbolo di sacrificio e di salvezza per eccellenza perché sinonimo di purezza e di innocenza. Nella tradizione ebraica, il giorno di Pasqua (Pesach) si sacrificava un “agnello maschio e se ne mangiava la carne arrostita e con il sangue si contrassegnava le abitazioni, segnando la salvezza del popolo ebraico”.

La Pasqua cristiana riprende la tradizione ebraica, ma si distacca nel significato simbolico e teologico ed elimina il rito sacrificale. Il sangue versato per liberarci non è più quello dell’agnello, ma quello di Gesù morto sulla croce. Ecco perché, nei Vangeli, Gesù Cristo viene indicato come Agnus Dei, Agnello di Dio. Ma, a differenza dell’agnello della Pasqua ebraica, quello cristiano risorge dalla morte. Nel corso dei secoli ci si è interrogati se Gesù, durante l’ultima cena, avesse o no mangiato l’agnello, e ciò lo pone protagonista del menu pasquale. In Sicilia, la cucina tradizionale ha saputo dare sfogo alla creatività quando si tratta di agnello. La ricetta più conosciuta è l’agnello “aggrassatu” (o “agglassato”, che deriva dal latino “glaciare” che significa velare, nel senso che la salsa che si forma ha la consistenza di una glassa) cioè la lunga cottura in tegame insieme alle patate, il rosmarino e la cipolla.

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